A PROPOSITO DEL DOLORE

A proposito del dolore, Armando Verdiglione, nella conferenza del 25 aprile 1998, scrive: «Questa è la teoria del nodo Borromeo: se uno degli anelli, se l’uno è tolto, gli altri due sono senza legame, sono liberi, sono autonomi, provinciali, nazionalisti. Se l’uno si divide in due, il dolore è locale, il figlio non è figlio, ma è soggetto figlio. Penitente. Deve esserci identità fra l’io e il figlio, cioè il punto e il contrappunto devono essere localizzati, dev’esserci il punto del dolore. Nel Martello delle streghe, gl’inquisitori, Institor e Sprenger, dominicanes di Colonia, devono trovare il punctum diaboli, ma poi anche il punctum della pena e del dolore della pena. Una volta stabilito che il dolore è locale, che l’uno non procede dal due. L’uno che si divide da se stesso comporta che l’uno procede dal due e che è in processione dallo zero. La prima è procedura, la seconda è processione. Leggiamo sant’Agostino l’africano. Sant’Ambrogio non era africano, crede di avere convertito sant’Agostino. Poi interviene la New Age con il naturalismo, con il primitivismo: vediamo un po’ come lenire, alleviare, rimediare il dolore: iatzu, shatzu, agopuntura (punto, puntura). Il luogo del dolore. Quindi poi ci vuole qualche “somarizzazione” perché si possa rappresentare. Primo esame: non risulta niente, secondo esame: non risulta niente, ma bisogna che risulti qualcosa, bisogna che qualcosa si produca. “A force de se croir malade on le devient”. È un dolore sentimentale, un dolore come prodotto della mentalità. Mentalità che abolisce il figlio, quindi l’infanticidio come altra faccia del matricidio. Il mito del padre comporta anche il mito del figlio. Il cristianesimo inventa il mito del figlio. Tutte le religioni si fondano sull’infanticidio, e in questo sono pagane, il cristianesimo invece inventa il mito del figlio, che non può essere accettato dal discorso occidentale. Ecco perché Nestore, Lutero, Calvino. Il discorso occidentale non può accettare che il tempo non finisca e quindi ha bisogno del mammismo, che è la fregatura dell’impresa (…)».

Quando non si tratta di un preciso dolore fisico facilmente individuabile e spiegabile, si giunge a localizzarlo grazie alla medicalizzazione. La localizzazione del dolore avviene non solo ad opera dell’inquisitore ma ad opera dello stesso inquisito. Nella difficoltà, nel disagio e nel dolore si manifesta nell’individuo lo scacco del fantasma di padronanza, ovvero l’impossibilità di controllare la realtà, la parola. Per superare l’ansia che questa constatazione produce, l’individuo tenta di localizzare il dolore nel vano tentativo di padroneggiare la parola. Il dolore deve essere localizzato per poter essere circoscritto.  Impossibile. Allora davvero poi ci si ammala. «A force de se croire malade on le devient».

Ma non tutto il male vien per nuocere: se si procede dall’apertura, il dolore non è il male. Se si pensa ad esempio alla nascita di un bambino è innegabile che come atto fisico sia traumatico e doloroso, ma senza di esso non ci sarebbe una nuova vita. Se si procede dall’apertura il dolore non è paralizzante. Tanto è vero che il dolore del parto viene di sovente rimosso dalle partorienti. L’atto di Cristo è un esempio di come quando il dolore viene ammesso, si possa elaborare: “passi da me questo calice”.

Proseguendo nella ricerca ho rintracciato un’altra annotazione interessante proveniente da una conferenza del 14 febbraio del 2000: «Il figlio procede dal padre, questa è la processione, e procede dal due, questa è la procedura, cioè non deve morire per rinascere, non deve annullarsi, non deve mortificarsi, non deve più diventare capro espiatorio né vittima, perché con l’atto di Cristo non c’è più vittima, non c’è più capro espiatorio. Non c’è più da farsi carico né da farsi vittima, quindi il dispositivo può instaurarsi e allora il dispositivo è dispositivo di vita. Di parola, quindi di vita, pertanto un programma e allora dispositivo di direzione. La non ammissione è in pratica la negazione della funzione di figlio, della funzione di uno e cioè l’abolizione della resistenza (Resistenz).»

In Le donne, la vendita, il profitto dalla rivista Il Secondo Rinascimento numero 23 del 1995, Armando Verdiglione fa un altro rimando interessante al termine ammissione: «Ammissione è la funzione di figlio, la funzione di uno, accettazione è accettazione della morte. Il suo complemento è il rifiuto. Il rifiuto della morte non è la negazione dell’accettazione, ma il complemento dell’accettazione. L’anoressia intellettuale è la non accettazione intellettuale della morte. Il termine anoressia significa non accettazione. L’accettazione della morte, del luogo comune, è cosa facile. La cosa più facile è dire così: “Questa cosa è difficile, qui c’è la difficoltà, quindi nessuna decisione”. Il fare sarebbe inadeguato, non possibile, quindi sarebbe impossibile fare. Troppo difficile fare, quindi impossibile fare. Questa è la via più facile, più comune di accettare la morte. È fare in modo che la morte diventi sangue bianco. Questo è cannibalismo bianco, corrente, è la psicofarmacologia comune. Gli umani vivono, quasi nella loro maggioranza, accettando la morte. Non moltissimi vivono nella città della morte. Accettare la morte comporta essere morti affaccendati, come dice Pirandello. La morte è indice della differenza assoluta nella parola. Io ho interrogato il testo occidentale e ho trovato questa idea dell’accettazione della morte che poi è l’idea della padronanza assoluta; lo dice anche Hegel, secondo il quale la morte è il padrone assoluto. L’idea della morte è l’idea della differenza; la questione, quindi, non è quella della morte, ma quella della differenza nella parola, differenza assoluta, irrappresentabile, che non può essere significata da uomo o donna. Uomo e donna viaggiano verso questa differenza. È questione di vita o di morte, come questione aperta. Così cominciano le cure del moribondo, cure sintomatologiche per dare la buona morte. (…) L’autorità non sta nell’autorizzarsi e l’ammissione non sta nell’ammettersi, poiché mai l’io diviene uno e mai il tu diventa zero. L’autorità è del nome che funziona e da questa autorità deriva la responsabilità, nelle cose che ci si trova a fare, a sperare, a desiderare, a sognare di notte e di giorno. Senza l’autorità noi ci mettiamo a girare in tondo, facciamo cerchio, ci mettiamo a girare come un bambino di meno di tre mesi».

L’uno non è mai identico a se stesso. La differenza non sta nell’allontanarsi dal padre ma è nel contingente e nel fare. La differenza d’altra parte rappresenta un disagio per l’armonia sociale: viene indicata come la malattia da curare, il male da estirpare. Non credo però che sia possibile localizzare la differenza. È un circolo vizioso per gli amanti dell’armonia sociale, perché così come la differenza non è localizzabile non è lo è nemmeno l’autorità. Per lo meno quella non rappresentata. Infatti se l’autorità non è rappresentabile, ancora meno può essere localizzata. Il tentativo di imprigionare il disagio prodotto dalla differenza è vano, funziona solo per chi ci crede, se così si può dire.

Perché quindi localizzare? Sì pensa erroneamente che circoscrivendo il dolore sì possa dominarlo. Dimenticando appunto che è qualcosa di realmente impossibile. Se invece di allinearsi alla civiltà del benessere, sì ammettesse il dolore senza incamminarsi in sentieri gnostici, potrebbe diventare possibile iniziare un’elaborazione intorno al dispiacere.