L’INDULGENZA

 

In diretta su Rai Uno, il giorno dell’apertura del giubileo 8 dicembre 2015, il giornalista, riferendosi al comunicato stampa del Vaticano, si è così espresso: “[…] è stato usato il termine perdono anziché indulgenza perché è più popolare […]”.

Sergio Dalla Val nella conferenza La madre, l’Altro, l’odio (Bologna, 6 marzo 2014), ha affermato che il perdono resta nell’idea matricida di conoscenza del bene e del male, presuppone qualcosa da riconciliare dopo uno sgarbo — chi rompe l’armonia deve riconciliarsi –, comporta un assoggettarsi alla colpa e alla pena. La pena si fonda sulla colpa risarcita con la vendetta – ha aggiunto – e la vendetta è alla base del sistema giudiziario, colpa e pena sono nella logica del cerchio.

Ma, come scrive Armando Verdiglione: “L’atto di Cristo è indipendente dall’azione giudiziaria e dall’azione di pena. Non dimentichiamo che Cristo viene mandato in croce per una pena, viene mandato in croce dal discorso giudiziario e dal discorso penale. C’è una distanza immensa tra lui e l’azione degli inquisitori e dei giustizieri. L’atto di Cristo come atto di parola non può essere eluso, confiscato, dal discorso inquisitorio, giudiziario. Cristo non entra nel conflitto, non si pone come uno dei duellanti, non si pone come soggetto alla pena, come soggetto al discorso giudiziario. Nell’orto del Getsemani suda sangue e dice: ‘Padre allontana da me questo calice’. Non che egli rifiuta il calice. Non lo rifiuta e non l’accetta, questo è essenziale. Se lo rifiutasse sarebbe già un modo di accettarlo. Se la sua fosse una non accettazione mentale equivarrebbe a un rifiuto mentale. Ma, Cristo non dice: ‘io non voglio questo calice’. C’è una non accettazione intellettuale del calice. Non c’è un istante, nemmeno sulla croce, in cui Cristo accetti la pena. L’atto di Cristo non è atto psicofarmacologico. Cristo non si fa soggetto psicofarmacologico, perché non è capro espiatorio”, non è pharmakos (La scrittura civile, “Il secondo rinascimento”, 49/1997).

Il perdono cristiano, inoltre, è “misericordia”. L’etimologia della parola è da collegarsi all’unione di miser-miseria e cor-cordis, il cuore di Dio si abbassa sulla miseria dell’uomo con la grazia del suo Figlio. Dal Vangelo di Giovanni, 1,18: “Dio nessuno lo ha mai visto, il Figlio unigenito che è Dio nel seno del Padre è lui che lo ha rivelato”. Gesù Cristo, per opera dello Spirito Santo, è così rivelazione piena ed efficace della misericordia del Padre.

Ma leggiamo ancora Verdiglione: “Chi può constatare oggi che senza lo Spirito – badate bene senza lo Spirito Santo –, non avviene la comunicazione? Non avviene quella comunicazione che s’instaura e riesce nella scrittura della politica, nella scrittura del fare, nella scrittura della pragmatica, nella scrittura delle cose che si fanno secondo l’occorrenza. Chi si accorge di questo? Solo Sant’Agostino si accorge che lo Spirito Santo opera nella scrittura pragmatica, opera nella comunicazione, e che è questa la sua missione! La missione! Non soltanto il Figlio ma anche lo Spirito è mandato. Lo Spirito, che procede dal Padre e dal Figlio, è mandato. Ma, dove sta la missione? Perché lo Spirito opera alla comunicazione”. (Dove sta la novità, “Il secondo rinascimento”, 44/1997).

E, in un altro brano tratto dal libro Leonardo da Vinci: “Invisibile e incorporeo lo Spirito. Nella parola, operatore pragmatico. L’idea della voce. Niente soggetto Spirito. Niente personificazione dello Spirito. Niente demonologia”.

Mentre, in un articolo della rivista “Il secondo rinascimento”, dal titolo La salute, istanza di qualità, sottolinea che “la resurrezione è del Figlio, non dello Spirito. Nessuno risorge nello Spirito. Nessuna resurrezione se viene inseguita l’identità dell’immagine. L’uno, anche nell’immagine, è diviso da se stesso, quindi differente da sé: sta qui la resurrezione che sfocia nella lettera. Bisogna che bene-male, brutto-bello, positivo-negativo, alto-basso si trovino alle spalle, cioè risultino una questione aperta, come la questione aperta di vita o di morte”.

Nella parabola di Luca 15, 11, Il padre e i due figli, meglio nota come parabola del figliol prodigo, entrambi i figli rappresentano due forme di ricordo delle origini, perché mettono a morte il padre. Il padre in cifrematica è indice dello zero, dell’incominciamento, il figlio è indice dell’uno, dell’uno assoluto. Cristo, il Figlio, non ha bisogno di mettere a morte il Padre, perché procede da lui.

San Giovanni Paolo II Papa, nella bolla d’indizione del giubileo dell’anno 2000 Incarnationis Mysterium, scrive: “[…] altro segno peculiare è l’indulgenza mediante la quale viene espressa la misericordia del Padre […]”.

San Paolo, Lettera ai Romani 5,10: “Se, infatti, quando eravamo nemici siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita”. (La Sacra Bibbia, edizioni CEI)

L’utilizzo del verbo riconciliare non è quello più opportuno, alcuni studiosi sostengono che la traduzione del Nuovo Testamento è da riferirsi alla versione in latino di Girolamo, la Vulgata.

In La teologia della riconciliazione nell’epistolario paolino, Juan M. Granados Rojas SJ scrive che Paolo è il primo autore della letteratura greca antica ad adoperare la categoria della riconciliazione in senso teologico, nella scrittura ebraica il verbo riconciliare non esiste. I termini usati per la traduzione del verbo nel Nuovo Testamento, nella traduzione dei Settanta, derivano da allàsso che fondamentalmente significa “modificare una situazione”. Il termine greco antico che può essere usato per intendere ciò che voleva dire Paolo è Katallagè, “placare la divinità”, il prefisso katà ha solo un valore intensivo.

Paolo, nella Lettera ai Romani, ci dice che l’ira di Dio non c’è più sull’uomo, è stata placata dal Figlio, grazie a lui è nata una nuova era. È comunque una questione aperta.

A questo punto, possiamo affermare che i successori degli apostoli, avendo ricevuto la missione dallo Spirito Santo per operare in nome e in persona di Cristo con i sacramenti, sono nel mondo la presenza viva dell’amore di Dio che si china su ogni umana debolezza per accoglierla nell’abbraccio della sua misericordia. Il sacramento dell’eucarestia, memoriale dell’atto di Cristo, verbo incarnato passato dal cenacolo al calvario, è il sacramento dei sacramenti, da Sant’Agostino chiamato “magna indulgentia” e da Papa Pio XII, nell’enciclica Mediator Dei, “la somma e il centro della vita cristiana”.

Nella cifrematica, il mito della Pentecoste è anche il mito dell’indulgenza, quando la luce trae all’intendimento. Come scrive Armando Verdiglione, nel Processo alla parola: “L’indulgenza: né salario, né premio. E il merito è il suo colmo. […] Più che condono della pena, assenza della pena”.