La realtà non è il nulla, di Sergio Dalla Val

Mai come in quest’epoca la realtà deve sottostare alla conoscenza. Già dagli anni settanta l’ideologia imperante non crede più che la realtà dell’impresa, per esempio, stia nel suo capitale fisso (macchine, scorte, immobili) o nella sua forza lavoro: per filosofi e sociologi à la page essa è definita dalla conoscenza che la formalizzerebbe, dai saperi che ne farebbero discorso, dal linguaggio che la strutturerebbe, dal pensiero che la in-formerebbe. Per questa via la realtà è definita da quel che Marx chiamava general intellect, e che oggi circola come knowledge sharing: conoscenza sociale, condivisa, pensiero collettivo, che risponde allo spirito comunitario, alla comunità come spirito della società. Infatti, questa realtà è pensata, ideata, rappresentata, come spirituale: tutt’altro che operativa, pragmatica, intellettuale. Tolta l’idea che opera alla scrittura della vita, l’idea che nessuno sa e nessuno concepisce, resta lo spirito della conoscenza, lo spirito che concepisce, che crea, che agisce. Ecco la nuova gnosi.

Questa impostazione spirituale oggi compie un passo ulteriore, entra nella mistica. La presunta conoscenza non servirebbe più alla definizione della realtà dell’impresa, della famiglia, della città, ma diventerebbe la loro stessa realtà: l’impresa sarebbe l’insieme delle sue conoscenze, dei suoi saperi, delle sue pratiche discorsive, ovvero dei suoi storytelling. Per Gorz “la conoscenza può essere considerata la nuova forma di capitale attraverso la quale si esprime la capacità di creazione delle società moderne”. La capacità di creazione si esprime attraverso la conoscenza, la conoscenza è “forza di produzione”, di creazione. Dal nulla alla luce, all’illuminazione con cui la luce si fa nulla: ecco la creazione, illusione illuministico-romantica. Gorz sostiene che “l’economia visibile, detta formale, è solo una parte ridotta dell’economia totale. Il suo dominio su quest’ultima ha reso invisibile l’esistenza di un’economia primaria fatta di attività, di scambi e di relazioni non mercantili mediante i quali sono prodotti il senso, la capacità di amare, di cooperare, di sentire, di legarsi agli altri, di vivere in pace con il proprio corpo e la propria natura”. Economia visibile, economia invisibile: Gorz incappa nella dicotomia visibile/invisibile, nascosto/manifesto, tipica della mistica. L’immateriale – ridotto al senso, all’amore, al sentire, al cooperare – è invisibile, e questa realtà invisibile è la vera realtà, coperta da quella materiale, visibile.

L’invisibile, l’occulto, il nascosto: questa non è la realtà intellettuale, è la realtà mistica, tanto più realmente mistica quanto più pronta a divenire visibile. Deus absconditus, Deus rivelatus: la realtà invisibile, spirituale, è nascosta e può manifestarsi, diventa ideofania. Realtà rivelata. Così l’iniziazione diviene base di ogni socializzazione, fondata sulla purificazione e sulla rigenerazione. Del riferimento a questa realtà pura, spirituale e mistica si nutre ogni potere, che si fonda sul nulla, che manifesta il nulla perché venga condiviso, partecipato fino a divenire la realtà. Condivisione, sostenibilità, inclusività, utilità sociale: ripetuti in ogni documento dell’Unione europea come mantra dei poteri forti, questi sono i valori che dovrebbero definire la realtà dell’impresa, valori del nulla, il nulla come valore. Ecco le direttive europee per ottenere fondi: annullatevi, così sopravvivrete, ovvero la morte per non morire.

Eppure, ciascuno, parlando, facendo, vivendo, constata che se la realtà non si identifica con la natura, con il concreto, con il visibile, essa non è nemmeno mentale, soggettiva, psichica, descritta da algoritmi o sancita da una comunità, magari “scientifica”. La realtà del dire e del fare è realtà della parola, realtà intellettuale: realtà della parola, non indicizzata, dunque non spirituale, realtà pragmatica, non concreta, dunque non mentale.

La partita della realtà intellettuale non si gioca sul terreno sensibile della proprietà dei saperi, bensì sul terreno dell’Altro irrappresentabile e impersonificabile: terreno industriale, terreno del tempo, dell’arte e dell’invenzione, del diritto e della ragione. Terreno del malinteso e non dell’intesa, della differenza e della varietà e non della comunità sociale, terreno del pubblico e non della società circolare. Il terreno della realtà è il terreno del fare.

La realtà intellettuale esige il pubblico della cosa, non la cosa pubblica, che è la realtà da condividere, da partecipare, da mostrare, da rivelare mantenendo il cerimoniale segreto. La realtà che si rivela serba il segreto, con le sue facce, l’inaccessibile e l’accesso: la società della trasparenza è la società segreta, che postula la realtà sull’idea del nulla e la affida al determinismo, quindi al fondamentalismo. La realtà intellettuale, cioè la realtà senza l’idea del nulla, dell’immateriale, dello spirituale, del noetico, del latente, dello psichico, è la realtà che esige la struttura della parola, non le strutture elementari o profonde o formali. Struttura del racconto che poggia sul sogno e sulla dimenticanza, il racconto in cui si costituisce l’impresa semplice, leggera, del software. Come indicano le testimonianze degli imprenditori in questo numero, la realtà dell’impresa esclude la dicotomia tra software e manifattura: entrambe esigono la mano, che è intellettuale, non la protesi, lo strumento dell’intelligenza che, secondo le visioni dei futurologi, diverrà onnipotente e prenderà il posto dell’intelligenza.

Il racconto che struttura l’impresa nuova, l’impresa intellettuale, non è lo storytelling, non sono le pratiche discorsive e narrative, le storie che definiscono i profili dei social, “il coinvolgimento personale, la capacità di amare, di cooperare, di sentire, di legarsi agli altri”, l’attività cooperante. Il racconto con cui si scrive la realtà dell’impresa, della famiglia, della città non trova le sue basi sui diritti di una presunta soggettività (diritto all’accesso? diritto al lavoro? diritto all’accoglienza?), cioè sul nulla, perché non è lo storytelling dell’imprenditore mecenate o del cittadino solidale, magari con l’immigrazione clandestina, come sottolineano gli interventi del dibattito sui migranti. Dicendo, facendo, scrivendo, senza più bisogno dell’idea di bene, il racconto che trae la famiglia, l’impresa, la città alla qualità è intessuto dall’azzardo, dall’inconveniente, dallo spirito costruttivo, dalla scommessa e dal rischio, dalla prova di realtà e di verità che ciascun giorno la vita e l’impresa esigono.

La realtà non è psichica perché poggia sulla prova pulsionale, prova intellettuale, prova pragmatica. La prova esige l’industria, la struttura materiale della parola, non la struttura formale o sociale o spirituale. Quale realtà dell’industria e dell’impresa senza la struttura materiale? Quale prova di realtà e di verità senza le struttura della parola? La realtà dell’impresa, della famiglia, della città non è immateriale, è materiale, anche se insostanziale, perché poggia sull’esperienza, sulla memoria come ciò che si enuncia e si scrive dell’esperienza. E sui dispositivi di valorizzazione. Realtà che non si nasconde, dunque, che non si manifesta, realtà non inaccessibile, dunque senza l’accesso, che Jeremy Rifkin consacra come diritto. Realtà sintattica, realtà frastica, realtà pragmatica: la cosa industriale è la cosa intellettuale.