LETTERA AI GIOVANI DI VIGNOLA

Cari ragazzi e ragazze,

nell’ambito di questo convegno* dovremmo capire in che modo la cultura e l’arte possano trasformare il viaggio della vostra vita, in che modo possano dare un contributo alla riuscita della vostra impresa, di quell’impresa che avete già avviato a vostra insaputa e che si avvale del vostro sogno, quello di cui non avete neppure un’idea.

Allora, innanzi tutto vorrei dirvi che non basta la scuola per acquisire la cultura e l’arte. La cultura e l’arte sono inconsce, si acquisiscono parlando, ascoltando, facendo, viaggiando, anche cercando nei libri, che sono essi stessi viaggi, in breve, si acquisiscono nel gerundio della vita, dove nessuno può insegnarvi come fare, come parlare, come scrivere, come comunicare, come vivere. Così, se un giorno i vostri figli o i vostri collaboratori vi chiederanno come fare, voi potrete rispondere come avete fatto voi: facendo.

La cultura e l’arte che si acquisiscono in questo modo del gerundio sono incancellabili, sono costitutive della memoria e non consentono la scelta. Nessuno può scegliere di dire, di fare, di scrivere ciò che più vorrebbe dire, fare, scrivere, perché la cultura e l’arte che sono alla base della parola, del fare, della scrittura sono inconsce, nessuno può sapere quali sono i propri presunti desideri.

Ma se oggi i vostri genitori, magari per dimostrarvi il loro bene, vi lasciano nella scelta del lavoro ideale, vi lasciano scegliere ciò che più vi piace, voi non prendeteli sul serio. Cercate di capire come essere utili nella famiglia, di cosa c’è bisogno, quali sono le occorrenze della casa o dell’azienda, se i vostri genitori ne hanno una. Chiedete loro di farvi lavorare fin da subito negli intervalli dallo studio: non c’è scuola di vita migliore della bottega e persino la cucina può essere intesa come bottega, con i suoi ritmi, le sue regole, le sue difficoltà, la sua disciplina, la sua istanza di conclusione, la soddisfazione di approdare a un piatto riuscito.

Non fidatevi dei genitori che vi lasciano poltrire, con il pretesto che voi non avete voglia di fare questo o quello. Trovate qualcosa in cui cimentarvi e date una mano. Solo così potete incominciare il vostro viaggio in paradiso, nel paradiso in cui il tempo non finisce, quello che Cantor chiamava transfinito. Questo tempo non passa e non scorre, è anch’esso inconscio, come la cultura e l’arte, è il tempo del racconto, che si fa di sogno e di dimenticanza, non di ricordi e di vigilanza. Non occorre la consapevolezza, la coscienza, per vivere nel paradiso del tempo infinito. La coscienza è forgiata dalla paura e la paura impedisce il viaggio. Noi viaggiamo non in quanto sappiamo o siamo coscienti della nostra presunta natura, dei presunti limiti nostri o dell’Altro, ma in quanto ignoriamo ciò che ci sta dinanzi, ignoriamo l’avvenire. Qualcosa accade perché noi sospendiamo la presunzione di conoscenza nostra e dell’Altro. E facciamo secondo l’occorrenza, non aspettiamo di conoscere quale sarà la strada giusta da intraprendere, per evitare l’errore. A volte, alcuni giovani indugiano per paura che, facendo qualcosa e trovandovi soddisfazione, poi arrestino il loro viaggio, non cerchino più la loro presunta vera strada e si accontentino di ciò che hanno trovato. Da dove viene questa paura di autoingannarsi? Ciascuna volta occorre indagare.

Vi racconto la storia di un ragazzo che enunciava la paura di rimanere incastrato, come diceva lui, nell’azienda di famiglia. Ma, ascoltando il suo racconto, era emerso che, anzi, dalla famiglia si era sentito rifiutato, perché i genitori ritenevano che l’erede designato fosse suo fratello maggiore, che già lavorava nell’azienda da quattro anni. Ascoltando il suo racconto, una delle prime frasi che aveva enunciato nella conversazione con me, infatti, era stata: “Per me non c’è posto nell’azienda di famiglia”. Se l’analista non è sordo, se non è un professionista, ma uno statuto intellettuale, se si avvale della cifrematica, avverte che in quella frase c’era una domanda, non una rinuncia. Quante volte quel ragazzo chiedeva consiglio ai genitori, agli amici, alla stessa analista? Ciascuna volta in cui gli veniva proposto un lavoro interessante o una carriera all’estero, si chiedeva: “Cosa devo fare? Devo cogliere questa occasione? È questo uno di quei treni che passano una volta sola nella vita? E se poi capisco che questa non è la mia strada? Avrò buttato via quattro o cinque anni, per essere punto e a capo”. Così, presumendo di poter scegliere, non sceglieva nulla. Allora, i genitori piangevano disperati perché, ancora una volta, il figlio aveva sprecato un’occasione, senza avere nessuna prospettiva davanti. Intanto però gli permettevano di stare a letto fino a mezzogiorno, non gli chiedevano neppure una mano per le occorrenze quotidiane della casa e dell’azienda e continuavano a offrirgli tutto ciò di cui aveva bisogno per vivere. In attesa del lavoro ideale, il ragazzo sprecava le giornate a disprezzare tutto ciò che gli stava intorno. Eppure, prima di laurearsi, aveva lavorato nell’azienda dei genitori e aveva dato prova del suo talento nell’organizzazione, con la sua ricchezza di spirito e le sue idee innovative, che erano apprezzate anche dai clienti. Poi, convinto che nell’azienda di famiglia non ci fosse posto per lui, era andato in Canada per seguire un master e presto aveva pensato di trasferirsi definitivamente lì. Dal Canada era approdato in Francia e poi, gira e rigira, dopo un anno, era tornato a casa. A quel ritorno era seguito l’inferno. Senza il fare e senza l’occorrenza, gli umani vivono nell’infernale, stanno a rimuginare, a covare vendette, a rappresentarsi come vittime, a imbestialirsi e a inferocirsi, ad animalizzarsi. Forte la tentazione di cancellare la memoria e di mandare all’inferno anche tutto ciò che si ostinava a resistere e a insistere nel racconto qua e là: impressioni di viaggio, riflessioni interessanti che prendevano spunto da letture avidamente coltivate, idee di filosofia, di politica, di attualità. Ma, per fortuna, dopo qualche mese, dalle tenebre sarebbe spuntato un raggio di sole: l’incontro con la psicanalisi e la cifrematica, per riprendere il viaggio della vita nella parola.

Cari ragazzi e ragazze, a questo punto magari vorreste che vi raccontassi che cosa abbia fatto Giacomo, chiamiamolo così, e come sia riuscito ad avere successo nella sua vita, se sia riuscito a divenire imprenditore nell’azienda di famiglia o altrove.

Invece, vi dovrà bastare sapere che la cultura e l’arte che inconsciamente aveva acquisito fino a quel momento hanno centuplicato il loro valore, sono diventate il suo capitale più prezioso e inalienabile, perché nessuno potrà mai togliergli la memoria, se non sarà egli stesso a tentarne una cancellazione, per paura, come faceva quando non riusciva a confrontarsi con il fratello maggiore. Poiché è in viaggio, nel suo viaggio intellettuale, oggi Giacomo dà un apporto essenziale all’impresa, che non è una torta da spartire, un territorio di conquista da occupare, da difendere, da salvaguardare, non è un luogo, ma un effetto del tempo in cui le cose si fanno e approdano all’unicità, è la dimora del paradiso, dove non c’è nulla da spartire perché nell’infinito ciò che si aggiunge non toglie nulla. Se ciò che Giacomo aggiunge non toglie nulla a ciò che il fratello ha messo in gioco prima di lui, come temere di perdere terreno?

Cari ragazzi e ragazze, che cosa ci insegna questa storia? Sicuramente che le parole non devono essere prese per il loro significato comune, che l’equivoco, la differenza e il malinteso non possono essere elusi. In gennaio sono stata invitata al circolo Paradisi di Vignola a tenere una conferenza dal titolo La famiglia e l’ascolto, in preparazione di questo convegno. Ma quale ascolto può intervenire se alle parole viene dato un significato comune, se ciò che ciascuno dice viene preso realisticamente. Secondo i genitori, Giacomo era un caso disperato perché a trent’anni non sapeva cosa fare e ripeteva che non avrebbe mai lavorato nell’azienda di famiglia. Ma Giacomo stava dicendo altro, qualcosa che neppure lui sapeva di dire. Non c’è un’altra esperienza di parola in tutto il pianeta che possa offrire questi strumenti di ascolto e di intelligenza, questa curiosità intellettuale e questa tensione intellettuale che garantiscono una tribuna ai giovani viaggiatori di ciascuna età. Questa esperienza si chiama conversazione di psicanalisi, un aspetto della cifrematica, come scienza della parola originaria. Eredita le acquisizioni dei sofisti, degli aedi, dei giullari, è cultura e arte, invenzione e gioco, formazione e insegnamento, ma non si impara una volta per tutte, è una pratica che segue l’occorrenza.

Prima di concludere, vorrei dirvi un’altra cosa importante: non fidatevi di chi interpreta sempre secondo il luogo comune tutto ciò che dite e che fate, chi si sofferma sul vostro comportamento per cercare di dedurre una vostra intenzione, chi nutre il sospetto che ci sia sempre qualcosa sotto le vostre parole, chi, in breve, fa significare tutto, cerca di attribuire un senso a ciascuna cosa e non ammette ciò che non ha un senso prestabilito. In questi giorni, come ha dichiarato il vostro sindaco sui quotidiani, Vignola è scossa dalla tremenda notizia che una figlia abbia assoldato un sicario per uccidere il proprio padre e riscuotere in anticipo i soldi dell’eredità. Ebbene, quando qualcuno arriva a questi estremi non è casuale: i presupposti c’erano già, nell’assenza di arte e cultura nella famiglia. Non importa se si tratta di persone istruite, perché, come dicevo all’inizio, la cultura e l’arte sono inconsce. Importa che nella famiglia la parola sia libera, non sia significata, importa che ci siano dispositivi di conversazione, che la parola sia sacra, che non ci sia la credenza di potere scegliere, la credenza nella libertà del soggetto. Cristina Pancaldi, così si chiama la figlia scellerata, era figlia unica e aveva avuto tutto ciò che chiedeva dai genitori. Tuttavia, non le bastava. Quando i genitori non esigono nessuna prova di realtà e di verità dai figli, quando credono che sia importante rispondere ai desideri che loro enunciano, senza chiedersi neppure se quelli siano davvero desideri o modi per mettere alla prova la loro autorità, quando temono di fare soffrire i loro figli e privano loro di qualsiasi incontro con la difficoltà, può accadere che i figli crescano senza direzione, senza progetto e senza programma, senza autorità e senza responsabilità. Come meravigliarsi poi del risultato? La messa a morte incomincia quando si elude l’azione della parola, si dà subito il giocattolo che il figlio chiede, pur di non sentirlo lamentare, quindi si attribuisce valore ai fatti anziché alla parola. Sta già qui la prima delega dell’autorità e della responsabilità, e non è mai scontato che si possano instaurare quando in una famiglia, per anni, è stata spacciata la sostanza, per mettere a tacere. Questa è la famiglia dell’omertà, quella che firma l’onorata società, con i suoi canoni e il suo conformismo, che vi propone una vita standard, cioè la morte della parola, la morte della cultura, la morte dell’arte. In questa famiglia vi auguro di non vivere mai.

Ma se per caso qualcuno o qualcosa dovesse accendere la vostra curiosità, vi prego, non indugiate, partite immediatamente per un’altra meta del vostro viaggio, dove forse ci incontreremo ancora.

 

*Intervento al convegno Come l’arte e la cultura trasformano la famiglia, l’impresa e la città a Vignola, Rocca di Vignola, 9 aprile 2016.