Note di lettura al libro “Del senso” di A.J. Greimas

NOTE DI LETTURA AL LIBRO DEL SENSO DI A.J. GREIMAS

Se ci interroghiamo intorno alla realtà, a cosa essa sia – ammesso che sia qualcosa – e ai suoi possibili significati, non possiamo non porci la questione del senso. In tale direzione è di assoluto interesse un autore come A.J. Greimas, importante linguista e semiologo del Novecento, che nel suo saggio Del senso (Bompiani), esordisce dicendoci che “è estremamente difficile parlare del senso e dire su di esso qualcosa di sensato. L’unico mezzo per raggiungere tale scopo sarebbe quello di costruirsi un linguaggio che non significasse nulla: in tal modo verrebbe stabilita una distanza oggettivante che permetterebbe di tenere discorsi sprovvisti di senso su discorsi sensati”.

Chiaramente, Greimas ci riporta qui al più evidente dei paradossi. Poiché, infatti, il senso è qualcosa che pertiene alla lingua – o, eventualmente, ad alcuni linguaggi – e che è propria delle parole o, comunque, di categorie linguistiche, egli ci fa notare come risulterebbe del tutto assurda l’eventualità di usare le parole per trovare, capire, spiegare il senso di altre parole. L’operazione rischierebbe di essere ricorsiva, dovendo procedere a ritroso per trovare un senso, poi un senso del senso, e così via, all’infinito. È evidente che tale pratica sarebbe – oltre che mai conclusa, né certa o definitiva – totalmente infruttuosa.

A questo punto, prosegue Greimas, “ci si potrà sempre fermare su una qualsiasi piattaforma metalinguistica, e dire a se stessi che non si procederà più oltre, che i concetti inventariati permangono indefinibili, e che è tempo di passare a cose più serie, e cioè alla fondazione di una assiomatica che sola permetterà di ridiscendere, di gradino in gradino, sino al senso delle parole e agli effetti che le loro combinazioni producono in noi”.

Un tale approccio ci permetterebbe, certamente, di mettere qualche punto fermo rispetto al senso delle parole o dei discorsi, ma sarebbe un’operazione assolutamente convenzionale e arbitraria. Un’azione metalinguistica che troverebbe, quindi, il proprio presupposto nella fondazione di assiomi, cioè di unità linguistiche minime il cui significato sia dato e accettato sic et simpliciter, senza alcuna possibilità di ragionamento o di messa in discussione.

Un’operazione di questo tipo, se da un lato ci fornirebbe un barlume di certezza e di definitività sul senso, dall’altro sarebbe – per usare ancora le parole di Greimas – “una confessione d’impotenza”.

In effetti, la questione del “quale sia il senso di…” è mal posta se si ritiene il senso come qualcosa che risieda in un “al di là” o in un “a priori” delle parole. Non vi è un senso dato, né prestabilito. E non vi è alcun senso prima della parola, così come non vi è un senso della parola. Il senso è nella parola. Ma è tutt’altro che univoco. E senza parola, senza lingua, noi non conosceremmo neppure il concetto stesso di senso. Il termine senso non avrebbe alcun senso! Più plausibilmente, il significante senso non esisterebbe.

Così, per dirla con Armando Verdiglione, il senso è un effetto della parola. Non è mai un suo presupposto.

Esattamente come – parafrasando Andrea Torrente, illustre giurista del Novecento – il senso di una norma è il risultato, quindi l’effetto, della sua interpretazione, non il presupposto.

Ancora Greimas ci dice, ad esempio, che “un quadro, una poesia, non sono che pretesti, in quanto non hanno che quel senso – o quei sensi – che noi conferiamo loro”.

Quindi, nessun senso precostituito o predeterminato. Ma un senso che viene da noi stessi conferito, attribuito. Attribuzione che, chiaramente, è un’azione tutt’altro che volontaria e intenzionale. È qualcosa che avviene nostro malgrado e che, per Greimas, risente del “filtro culturale della nostra percezione del mondo”.

“Che cosa significa questa parola? Che cosa si intende con questo termine? […] l’uomo tenta di interrogare ingenuamente il senso, come se le parole volessero veramente dire qualcosa e come se il senso potesse essere afferrato drizzando l’orecchio. Le risposte date sono, però, solo risposte per procura, che non fanno altro che protrarre l’equivoco: infatti, sono semplicemente delle parafrasi, traduzioni più o meno inesatte di parole e enunciati in altre parole e in altri enunciati.

La significazione, perciò, non è altro che questa trasposizione d’un piano di linguaggio in un altro, di un linguaggio in un linguaggio diverso, mentre il senso è semplicemente questa possibilità di transcodifica.

Drammatizzando un po’ la cosa [ma neanche troppo! N.d.a.] si potrebbe dire, a questo punto, che il parlare metalinguistico dell’uomo è soltanto una serie di menzogne e che la comunicazione è soltanto una successione di malintesi” (A.J. Greimas, Del senso).

Così, il senso si produce parlando e scrivendo. Non è là. Non è prima. Non è uno.

Parlando, crediamo di capirci, ci illudiamo di comprenderci, riteniamo di trasmettere un senso – o, peggio, “il senso” –, ma quella che chiamiamo “comunicazione” è solo una traduzione incredibilmente approssimativa.

Secondo Armando Verdiglione, infatti, “le cose non significano. A esse non deve essere dato un senso, perché il senso è nella loro struttura” (Quale accusa?). E ancora, “il senso, il sapere e la verità sono effetti del percorso della parola, non sono cause” (Discorso isterico e ictus. Discorso ossessivo e infarto).

La parola, quindi, non è un mero strumento per spiegare l’esistenza di cose al di là e al di fuori di essa, ma è, anzi, un elemento costitutivo – potremmo dire – della realtà, come noi la conosciamo (o, meglio, come presumiamo di conoscerla). Per l’essere umano, semplicemente, non esiste un “a priori” della parola. Per quanto egli si possa sforzare, non troverà alcuna esperienza pre-linguistica. E il senso non incontra alcuna eccezione a questo. Esso, anzi, non può sorgere se non per effetto della parola e dell’articolazione linguistica. Ritenere di poterlo individuare, definire, circoscrivere è un’operazione di pura fantasia. È solo metalinguaggio.