daniela-prevedelli

post image

CONVERSIONE

CONVERSIONE

 

Quante accezioni ha il termine conversione? La conversione delle unità di misura, per esempio, è l’applicazione di operazioni aritmetiche (in genere moltiplicazioni e divisioni) che calcola il valore di una grandezza espressa in un’unità di misura differente da quello noto (Regolamento della Comunità Europea n. 2866/98 sui tassi di conversione tra l’euro e le valute degli Stati membri dell’Unione Europea). Nel Piano di risoluzione di un concordato preventivo si parla di conversione di una parte dei crediti in capitale di rischio ovvero in azioni.Il Codice civile art.1424, invece, disciplina la conversione del negozio giuridico nullo: “Il contratto nullo può produrre effetti di un contratto diverso, del quale contenga i requisiti di sostanza e forma, qualora, avuto riguardo allo scopo perseguito dalle parti, debba ritenersi che esse lo avrebbero voluto se avessero conosciuto la nullità”, da un negozio in se stesso nullo si può ricavare un nuovo negozio valido.In fisica si parla di conversione della luce solare in energia termica. In psicanalisi, la conversione è un meccanismo psichico caratteristico di alcuni fenomeni isterici, quale il discorso paranoico. Nella legge di Mosè, la Torah, conversione significa abbandonare l’idolatria e volgersi a YHWH nell’osservanza della legge. Gli ebrei tradizionali si convertono ogni giorno osservando 613 mitzvot. In dialogo quotidiano con il divino, ciascun ebreo s’impegna costantemente a seguire questi precetti, 248 obblighi e 365 divieti. Il termine conversione si traduce in latino conversiònem; il verbo convèrtere è composto dalla particella con che aggiunge forza e vèrtere che significa volgere, voltare, aggirarsi intorno, fare che una cosa divenga altra da quella che è, trasmutare, trasformare, destinare a uso diverso; in senso metaforico ritrarre alcuno da una falsa religione alla vera, quasi dica trasformarne l’animo mediante esortazioni, argomenti, ragioni (Dizionario etimologico Ottorino Pianigiani). In senso morale religioso di “ritorno al culto e alla pietà di Dio”, fu usato dalla Bibbia latina come equivalente del greco nella versione dei LXX, ἐπιστροϕή (restituzione, ritorno, indietro), e dell’originale ebraico èubh, volgersi, tornare, ritornare, al quale si associa pure il verbo ebraico nacham, dispiacersi, essere dispiaciuti. Questo termine greco è stato utilizzato per la prima volta in Atti degli Apostoli 15.3 per tradurre “conversione dei gentili”, dal paganesimo al cristianesimo. Come nota il teologo Joseph Henry Thayer, questa conversione non significa il volgersi del popolo indietro per ripristinare una religione che comunque non avevano mai vissuto, ma il tornare alle origini dei nostri progenitori (Adamo e Eva) prima che cadessero nell’inganno. Nel Vangelo di Marco 1, 14-15, si legge: “Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea proclamando il Vangelo di Dio, e diceva:‘Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo’” (La Sacra Bibbia edizione CEI, 2008). In questo caso la traduzione di “convertitevi” deve essere connessa a due termini: 1) ἐπιστρέφω ritorna, ritorno, come nell’inglese back – il cui verbo “restituire” in latino è un composto della particella re, addietro, di nuovo e di stituere, far sì che qualche cosa stia, rimettere nello stato primitivo, rendere altrui ciò che prima era in suo possesso –; e 2) μετανοέω cambiare parere, composto di μετα “meta” e νοέω “intendere, pensare”, profondo mutamento nel modo di pensare, di sentire, di giudicare le cose, (νοῦς è contrazione dell’analogo ionico νόος, un termine che in greco antico indica, a partire da Omero, la capacità di comprendere un evento o le intenzioni di qualcuno, la capacità intellettuale quindi l’intelletto). In Matteo 18.3, la conversione diventa un ravvedimento fatto di tutto cuore: “In verità io vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli” (La Sacra Bibbia, edizione CEI, 2008). Cosa s’intende per “di tutto cuore”? Papa Francesco nell’omelia della Quaresima 2017 dice: “La Quaresima è un nuovo inizio, una strada che conduce verso una meta sicura: la Pasqua di Resurrezione, la vittoria di Cristo sulla morte. E sempre questo tempo ci rivolge un invito forte alla conversione: il cristiano è chiamato a tornare a Dio ‘con tutto il cuore’ (Giovanni, 2,12)’”. Nel vangelo di Marco, 12,30, si legge: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Il “cuore” nella simbologia cristiana e iconografica è la vita (cognitiva, affettiva, volitiva): nelle immagini il Cristo è rappresentato anche come un pellicano che si strappa il cuore per nutrire e dare la vita ai figli. Il verbo intransitivo “ravvedersi” in latino è composto dalla particella re, addietro, di nuovo e avvedèrsi, accorgersi: riconoscere i propri errori, condannarli e pentirsene. Una delle sue derivazioni è “ravviare”, che è composta dalla particella re, addietro di nuovo, e avviàre, quasi rimettere sulla via, sul buon sentiero: ridare l’avviamento a cosa avviata. E una delle derivazioni di “ravviare” è raziocinio, dal latino ratiocinàri, ragionare, composto di ràtio, ragione, calcolo, e cinàri, figurativamente far conoscere, spiegare. Nella teologia cristiana, ravvedimento è tradotto dal termine greco μετανοια, che significa “trasformazione della mente”, spesso usato nella LXX per tradurre il termine tardo ebraico nacham.Definito in questo modo, il termine “ravvedimento” potrebbe essere letto come qualche cosa di esclusivamente intellettuale. Non è così, in quanto gli scrittori della Bibbia erano fortemente consapevoli dell’unità della personalità umana.Ma, cosa significa “trasformare la mente”, difenderci dal luogo comune o da quello collettivo, la bestia platonica? Una risposta la potremmo trovare in Matteo 4,17-22: Gesù inizia a predicare sul Mar di Galilea, zona di frontiera e di pescatori, e dice: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino”. “Mentre camminava lungo il mare di Galilea, vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea, che gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. E disse loro: ‘Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini’. Ed essi subito lasciarono le reti e lo seguirono. Andando oltre, vide due fratelli, Giacomo, figlio di Zebedeo, e Giovanni, che nella barca, insieme al loro padre, riparavano le reti, e li chiamò. Ed essi subito lasciarono la barca e il loro padre e lo seguirono” (La Sacra Bibbia, edizione CEI, 2008).La chiamata alla conversione è al tempo stesso grazia di dio e atto libero dell’uomo. Agli apostoli è chiesto di abbandonare le cose e gli affetti, una reale rottura tra ciò che si era e ciò che si diventa alla sequela (da pescatori di pesci a pescatori di uomini). Gesù chiama mentre annuncia il Vangelo, quindi l’”ascolto” della Parola e l’autorità del Padre nel Figlio, nell’azione dello Spirito Santo opera un cambiamento. In questo caso la conversione sembra istanza di un prima e di un dopo, ma è anche istanza continua, qualche cosa che deve essere impresso nella propria vita giorno dopo giorno, non c’è conversione una volta per sempre.Armando Verdiglione, quando parla di conversione, dice: “La conversione non è influenza! Non c’entra niente, ma proprio niente con l’influenza. Riguarda la sintassi, non l’influenza che è nel pragma” (conferenza del 15.11.1999). Mentre, in un articolo del 1995, scrive: “In ciascuna conversazione, affronto la difficoltà in modo da stabilire la traccia da cui poi procede l’itinerario, la conversazione stessa. Non bisogna pensare che la psicanalisi, la cifrematica, la clinica siano un compartimento religioso, dottrinario, riservato, chiuso in se stesso, purista: si tratta essenzialmente di un atto di generosità, di umiltà e di ‘ascolto’. Sono gli elementi di ‘ascolto’ che consentono l’avanzamento e che qualche cosa si scriva. Più la situazione è difficile e meno va drammatizzata. C’è chi, non ascoltando, non dà nessuna soddisfazione all’interlocutore. Il quale dice alcune cose, racconta, narra, medita, introduce elementi nuovi: occorre dare atto di alcune cose e proseguirle. Questo consente che le cose che l’interlocutore sta narrando si scrivano. Noi non possiamo togliergli la soddisfazione, incalzarlo, perché occorre che ci sia l’interlocuzione, cioè che quanto si dice si fa e quanto si fa si scrive – la soddisfazione sta nella scrittura della parola. Non si tratta di animare la conversazione. È importante, quando un incontro si conclude, che non si chiuda. La conclusione procede sempre dall’apertura, dal proseguimento come modo dell’apertura” (La necessità del superfluo, “Il secondo rinascimento”, 20/95). Spero di avere dato spunti per andare oltre l’accezione comune di conversione.

post image

L’INDULGENZA

 

In diretta su Rai Uno, il giorno dell’apertura del giubileo 8 dicembre 2015, il giornalista, riferendosi al comunicato stampa del Vaticano, si è così espresso: “[…] è stato usato il termine perdono anziché indulgenza perché è più popolare […]”.

Sergio Dalla Val nella conferenza La madre, l’Altro, l’odio (Bologna, 6 marzo 2014), ha affermato che il perdono resta nell’idea matricida di conoscenza del bene e del male, presuppone qualcosa da riconciliare dopo uno sgarbo — chi rompe l’armonia deve riconciliarsi –, comporta un assoggettarsi alla colpa e alla pena. La pena si fonda sulla colpa risarcita con la vendetta – ha aggiunto – e la vendetta è alla base del sistema giudiziario, colpa e pena sono nella logica del cerchio.

Ma, come scrive Armando Verdiglione: “L’atto di Cristo è indipendente dall’azione giudiziaria e dall’azione di pena. Non dimentichiamo che Cristo viene mandato in croce per una pena, viene mandato in croce dal discorso giudiziario e dal discorso penale. C’è una distanza immensa tra lui e l’azione degli inquisitori e dei giustizieri. L’atto di Cristo come atto di parola non può essere eluso, confiscato, dal discorso inquisitorio, giudiziario. Cristo non entra nel conflitto, non si pone come uno dei duellanti, non si pone come soggetto alla pena, come soggetto al discorso giudiziario. Nell’orto del Getsemani suda sangue e dice: ‘Padre allontana da me questo calice’. Non che egli rifiuta il calice. Non lo rifiuta e non l’accetta, questo è essenziale. Se lo rifiutasse sarebbe già un modo di accettarlo. Se la sua fosse una non accettazione mentale equivarrebbe a un rifiuto mentale. Ma, Cristo non dice: ‘io non voglio questo calice’. C’è una non accettazione intellettuale del calice. Non c’è un istante, nemmeno sulla croce, in cui Cristo accetti la pena. L’atto di Cristo non è atto psicofarmacologico. Cristo non si fa soggetto psicofarmacologico, perché non è capro espiatorio”, non è pharmakos (La scrittura civile, “Il secondo rinascimento”, 49/1997).

Il perdono cristiano, inoltre, è “misericordia”. L’etimologia della parola è da collegarsi all’unione di miser-miseria e cor-cordis, il cuore di Dio si abbassa sulla miseria dell’uomo con la grazia del suo Figlio. Dal Vangelo di Giovanni, 1,18: “Dio nessuno lo ha mai visto, il Figlio unigenito che è Dio nel seno del Padre è lui che lo ha rivelato”. Gesù Cristo, per opera dello Spirito Santo, è così rivelazione piena ed efficace della misericordia del Padre.

Ma leggiamo ancora Verdiglione: “Chi può constatare oggi che senza lo Spirito – badate bene senza lo Spirito Santo –, non avviene la comunicazione? Non avviene quella comunicazione che s’instaura e riesce nella scrittura della politica, nella scrittura del fare, nella scrittura della pragmatica, nella scrittura delle cose che si fanno secondo l’occorrenza. Chi si accorge di questo? Solo Sant’Agostino si accorge che lo Spirito Santo opera nella scrittura pragmatica, opera nella comunicazione, e che è questa la sua missione! La missione! Non soltanto il Figlio ma anche lo Spirito è mandato. Lo Spirito, che procede dal Padre e dal Figlio, è mandato. Ma, dove sta la missione? Perché lo Spirito opera alla comunicazione”. (Dove sta la novità, “Il secondo rinascimento”, 44/1997).

E, in un altro brano tratto dal libro Leonardo da Vinci: “Invisibile e incorporeo lo Spirito. Nella parola, operatore pragmatico. L’idea della voce. Niente soggetto Spirito. Niente personificazione dello Spirito. Niente demonologia”.

Mentre, in un articolo della rivista “Il secondo rinascimento”, dal titolo La salute, istanza di qualità, sottolinea che “la resurrezione è del Figlio, non dello Spirito. Nessuno risorge nello Spirito. Nessuna resurrezione se viene inseguita l’identità dell’immagine. L’uno, anche nell’immagine, è diviso da se stesso, quindi differente da sé: sta qui la resurrezione che sfocia nella lettera. Bisogna che bene-male, brutto-bello, positivo-negativo, alto-basso si trovino alle spalle, cioè risultino una questione aperta, come la questione aperta di vita o di morte”.

Nella parabola di Luca 15, 11, Il padre e i due figli, meglio nota come parabola del figliol prodigo, entrambi i figli rappresentano due forme di ricordo delle origini, perché mettono a morte il padre. Il padre in cifrematica è indice dello zero, dell’incominciamento, il figlio è indice dell’uno, dell’uno assoluto. Cristo, il Figlio, non ha bisogno di mettere a morte il Padre, perché procede da lui.

San Giovanni Paolo II Papa, nella bolla d’indizione del giubileo dell’anno 2000 Incarnationis Mysterium, scrive: “[…] altro segno peculiare è l’indulgenza mediante la quale viene espressa la misericordia del Padre […]”.

San Paolo, Lettera ai Romani 5,10: “Se, infatti, quando eravamo nemici siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita”. (La Sacra Bibbia, edizioni CEI)

L’utilizzo del verbo riconciliare non è quello più opportuno, alcuni studiosi sostengono che la traduzione del Nuovo Testamento è da riferirsi alla versione in latino di Girolamo, la Vulgata.

In La teologia della riconciliazione nell’epistolario paolino, Juan M. Granados Rojas SJ scrive che Paolo è il primo autore della letteratura greca antica ad adoperare la categoria della riconciliazione in senso teologico, nella scrittura ebraica il verbo riconciliare non esiste. I termini usati per la traduzione del verbo nel Nuovo Testamento, nella traduzione dei Settanta, derivano da allàsso che fondamentalmente significa “modificare una situazione”. Il termine greco antico che può essere usato per intendere ciò che voleva dire Paolo è Katallagè, “placare la divinità”, il prefisso katà ha solo un valore intensivo.

Paolo, nella Lettera ai Romani, ci dice che l’ira di Dio non c’è più sull’uomo, è stata placata dal Figlio, grazie a lui è nata una nuova era. È comunque una questione aperta.

A questo punto, possiamo affermare che i successori degli apostoli, avendo ricevuto la missione dallo Spirito Santo per operare in nome e in persona di Cristo con i sacramenti, sono nel mondo la presenza viva dell’amore di Dio che si china su ogni umana debolezza per accoglierla nell’abbraccio della sua misericordia. Il sacramento dell’eucarestia, memoriale dell’atto di Cristo, verbo incarnato passato dal cenacolo al calvario, è il sacramento dei sacramenti, da Sant’Agostino chiamato “magna indulgentia” e da Papa Pio XII, nell’enciclica Mediator Dei, “la somma e il centro della vita cristiana”.

Nella cifrematica, il mito della Pentecoste è anche il mito dell’indulgenza, quando la luce trae all’intendimento. Come scrive Armando Verdiglione, nel Processo alla parola: “L’indulgenza: né salario, né premio. E il merito è il suo colmo. […] Più che condono della pena, assenza della pena”.