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LA VITA PENSATA

Me lo dicevi anche tu

la vita va vissuta

senza trovarci un senso.

Me lo dicevi anche tu

la vita va vissuta

e invece io la penso.

(La vita pensata – Brunori SAS)

 

 

 

Pensarsi, pensare l’altro, pensare la vita.

Pensare.

Pensare per capire, per comprendere.

Il rischio – come disse una volta, molti anni fa, Ruggero Chinaglia, in una conferenza – è quello della comprensione.

Pensare transitivamente è fuori dall’atto di nominazione.

È nella nomenclatura.

Le cose si nominano in quanto si qualificano.

Non per elencarle o per sistematizzarle.

 

Ne La Cifra, Armando Verdiglione scrive:

«L’atto di nominare è l’atto di nominazione. Il nominare è travolto e strutturato dalla nominazione. Di ciò prende atto Noè. La sua lingua proviene dallo scacco della lingua adamica. Non nomina le specie. Ne fornisce la rassegna sulla scia della nominazione. Dio sta ad indicare l’impossibilità di pensare le cose per potere nominarle».

 

L’impossibilità di pensare le cose per potere nominarle.

Non si pensa a qualcosa o a qualcuno.

Si pensa, certo.

Ma è una questione operazionale, non classificatoria, definitoria o descrittiva.

Pensare per comprendere, pensare per definire, pensare per chiarire, per chiudere la questione, è l’ipostasi.

Credere di poter pensare a qualcosa o a qualcuno è come credere di poter ritrovare un film in un fotogramma.

È nella totale negazione del divenire, del gerundio.

E pensare a qualcosa o a qualcuno è pensare all’idea. L’idea che abbiamo riguardo a qualcosa o a qualcuno.

Ma non c’è qualificazione in questo, perché è tutto nell’idealità.

 

Esattamente come pensare il tempo.

Contarlo. Quantificarlo. Teorizzarlo.

Il tempo non esiste fuori dal fare.

Anche contare il tempo in astratto è in una sorta di nomenclatura.

Il tempo “esiste” solo quando è qualificato dal fare.

Come diceva Shunryu Suzuki, se oggi alle cinque devo essere in un determinato posto per fare quella cosa… allora, le cinque saranno “fare quella cosa”.

Ma non esistono le cinque in astratto.

 

Ma dimmi un po’ che cosa stai cercando

io cerco la risposta,

mio padre l’aveva messa lì in ufficio,

ma qualcuno l’ha nascosta.

(La vita pensata – Brunori SAS)

 

 

 

Eppure pensiamo.

Pensiamo, rischiando la comprensione.

Ma cosa vuol dire rischiare la comprensione?

Perché mai la comprensione dovrebbe essere un rischio e non qualcosa cui tendere?

In fondo, noi parliamo, svisceriamo, argomentiamo…

A cosa serve tutto questo se non a comprendere, a capire?

Qui la questione è quella del fine (e della fine), oltre che della scelta.

I due aspetti mi paiono, in qualche modo, collegati.

Non ha un fine, quindi, tutta questa elaborazione e articolazione linguistica?

Dove ci conduce, se non a mettere in ordine le cose? Se non a sistemarle?

A cosa serve agli uccelli volare? A cosa serve ai pesci nuotare?

Forse gli uccelli volano e i pesci nuotano per spostarsi?

Per andare da A a B?

Se la questione è questa, allora, potrebbero anche scegliere di non farlo… o no?

E noi?

Potremmo scegliere di non parlare, di non dissertare, di non elaborare?

È, forse, una scelta la nostra?

La parola è una scelta?

Si può, dunque, scegliere di parlare o di non parlare, si può scegliere cosa dire, o come dirlo?

Possiamo scegliere le parole che usiamo?

Io sto scegliendo di scrivere queste cose?

E di scriverle in questo modo?

E se sto scegliendo, in base a quali criteri sto operando questa scelta?

E questi criteri, come si sono formati nel mio ragionamento?

Le parole che si trovano nella mia costellazione linguistica le ho forse scelte, le ho volute?

C’è stata, quindi, una sorta di selezione?

E ho scelto anche di scegliere?

Cosa sa un uccello del volo?

E quanto è forte la sua volontà di volare?

 

Ancora Suzuki ci dice:

«Finché continuate a pensare: “Io lo sto facendo” o “Io lo devo fare” oppure “Devo ottenere qualcosa di speciale”, in effetti non state facendo niente. Quando lasciate perdere, quando non desiderate più niente o quando non cercate di fare niente di speciale, allora fate qualcosa. Quando non c’è alcuna idea di conseguimento in ciò che fate, allora fate qualcosa.

Nello zazen ciò che fate non è in funzione di nient’altro. Può darsi che vi sembri di fare qualcosa di speciale, ma in effetti è solo l’espressione della vostra vera natura; è l’attività che appaga il vostro più profondo desiderio.

Ma finché pensate di praticare lo zazen in funzione di qualcos’altro, non si tratta di vera pratica».

 

 

Dunque… se l’uccello volasse semplicemente perché ha le ali?

E se il pesce nuotasse… semplicemente perché ha le pinne e si trova nell’acqua?

La parola, l’elaborazione e l’articolazione linguistica, non sono una scelta.

Parliamo perché abbiamo la parola (non nel senso di possesso, naturalmente).

O, più probabilmente, siamo parlati.

Siamo strutturati dalla parola.

“Esistere” è nella parola.

“Venire al mondo” è nella parola.

“Vivere” è nella parola.

Questa è la nominazione.

E non vi è scelta, né modo di sottrarvisi.

Anche quando siamo nella nomenclatura, la nominazione è già, comunque, in atto.

Che noi lo vogliamo o no.

 

Pensare, pensarsi, pensare l’altro, pensare la vita.

Sono, forse, quelle operazioni che in informatica si potrebbero chiamare operazioni “in background”?

Quelle operazioni, cioè, che la macchina deve compiere per mantenere attivo il sistema operativo, anche mentre non sta facendo nulla?

O è, semplicemente, una iperproduzione di senso?

E l’iperproduzione di senso non è anch’essa un’operazione “in background”?

E vi è un modo per arrestare questa iperproduzione?

Ho provato, talvolta, a rispondere a questa domanda… con scarsi risultati.

Forse, una strada potrebbe essere quella di “fare di più”?

Fare è certamente un ottimo modo per dissipare il pensiero transitivo (il cosiddetto “rimuginare”) e per instaurare il pensiero pragmatico.

Ma vi sono diverse obiezioni a questa possibile “soluzione”.

 

La prima è che il fare non è quantitativo.

Non si può “fare di più”.

Il fare non si può contare, non nel senso dell’accumulo, quantomeno.

 

La seconda è che, nel momento stesso in cui ci stiamo ponendo il problema… stiamo nuovamente iperproducendo senso.

Stiamo cercando una soluzione attraverso gli stessi meccanismi che innescano il problema che stiamo tentando di risolvere.

Quindi, paradossalmente, cercando una soluzione, stiamo alimentando il problema.

 

E questo ci conduce ad una terza obiezione, che sorge ancora una volta in forma di domanda.

Perché “dobbiamo” smettere di iperprodurre senso?

Crediamo ancora una volta di poter scegliere?

Tutto ciò, non è, forse, ancora una volta indotto da un’idea, da un senso predeterminato?

Dal credere di sapere (e a priori, per di più!) cosa va bene e cosa no?

Cosa è interessante e cosa no?

Dall’instaurarsi del senso come causa, anziché come effetto?

Per contrapporgli, così, un altro senso, sempre come causa, ma più corretto, più opportuno?

Per instaurare l’ascolto – senza moralismo, senza finalismo, senza volontarismo – dobbiamo prima di tutto partire dall’ascolto di noi stessi.

Ascoltare, senza zittire, senza orientare, senza censurare.

Senza sapere.

Non è facile, certo.

Ma, in fondo, si tratta di osare e di giocare un po’ di più… e, forse, di prendersi meno sul serio!

 

Ora… immagino che mi venga chiesto dal protagonista della canzone: ma allora… cosa devo fare?

Io non lo so.

Forse… proprio niente.

Ma non è un “niente” inteso come negazione.

Non è che si debba stare fermi e non fare niente (posto che stare fermo e non fare niente non sono la stessa cosa), è solo che la risposta non ha molta importanza.

Innanzitutto, perché non c’è una risposta.

In secondo luogo perché questa risposta presupporrebbe ancora di poter scegliere se fare e cosa fare.

E in terzo luogo, perché in questa domanda vi è ancora una volta un’idea di fine.

E il fare non è né transitivo, né finalistico, né addomesticabile o padroneggiabile.

 

Cosa devi fare?

Viaggia.

Che non è uno spostamento da A a B.

Quello, certamente, può essere un pretesto, un espediente… ma non è da intendersi realisticamente come la meta del viaggio.

Il viaggio è semplicemente mettersi in cammino.

Nella metafora, ovviamente.

Senza meta, senza fine, senza volontà.

 

 

Vincenzo Pisani

 

 

 

 

NOTE BIBLIOGRAFICHE.

  • A. Verdiglione, L’intervento cifrematico, 1993, in SR,Il denaro, la moneta, i soldi, 24, 95, SPIRALI.
  • A. Verdiglione, c. 21.12.1998.
  • A. Verdiglione, 9-10.4.1994.
  • A. Verdiglione, c. 6.3.2000.
  • Shunryu Suzuki, Mente zen, mente di principiante, 1978, UBALDINI.

 

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NOTE DI LETTURA AL LIBRO DEL SENSO DI A.J. GREIMAS

Se ci interroghiamo intorno alla realtà, a cosa essa sia – ammesso che sia qualcosa – e ai suoi possibili significati, non possiamo non porci la questione del senso. In tale direzione è di assoluto interesse un autore come A.J. Greimas, importante linguista e semiologo del Novecento, che nel suo saggio Del senso (Bompiani), esordisce dicendoci che “è estremamente difficile parlare del senso e dire su di esso qualcosa di sensato. L’unico mezzo per raggiungere tale scopo sarebbe quello di costruirsi un linguaggio che non significasse nulla: in tal modo verrebbe stabilita una distanza oggettivante che permetterebbe di tenere discorsi sprovvisti di senso su discorsi sensati”.

Chiaramente, Greimas ci riporta qui al più evidente dei paradossi. Poiché, infatti, il senso è qualcosa che pertiene alla lingua – o, eventualmente, ad alcuni linguaggi – e che è propria delle parole o, comunque, di categorie linguistiche, egli ci fa notare come risulterebbe del tutto assurda l’eventualità di usare le parole per trovare, capire, spiegare il senso di altre parole. L’operazione rischierebbe di essere ricorsiva, dovendo procedere a ritroso per trovare un senso, poi un senso del senso, e così via, all’infinito. È evidente che tale pratica sarebbe – oltre che mai conclusa, né certa o definitiva – totalmente infruttuosa.

A questo punto, prosegue Greimas, “ci si potrà sempre fermare su una qualsiasi piattaforma metalinguistica, e dire a se stessi che non si procederà più oltre, che i concetti inventariati permangono indefinibili, e che è tempo di passare a cose più serie, e cioè alla fondazione di una assiomatica che sola permetterà di ridiscendere, di gradino in gradino, sino al senso delle parole e agli effetti che le loro combinazioni producono in noi”.

Un tale approccio ci permetterebbe, certamente, di mettere qualche punto fermo rispetto al senso delle parole o dei discorsi, ma sarebbe un’operazione assolutamente convenzionale e arbitraria. Un’azione metalinguistica che troverebbe, quindi, il proprio presupposto nella fondazione di assiomi, cioè di unità linguistiche minime il cui significato sia dato e accettato sic et simpliciter, senza alcuna possibilità di ragionamento o di messa in discussione.

Un’operazione di questo tipo, se da un lato ci fornirebbe un barlume di certezza e di definitività sul senso, dall’altro sarebbe – per usare ancora le parole di Greimas – “una confessione d’impotenza”.

In effetti, la questione del “quale sia il senso di…” è mal posta se si ritiene il senso come qualcosa che risieda in un “al di là” o in un “a priori” delle parole. Non vi è un senso dato, né prestabilito. E non vi è alcun senso prima della parola, così come non vi è un senso della parola. Il senso è nella parola. Ma è tutt’altro che univoco. E senza parola, senza lingua, noi non conosceremmo neppure il concetto stesso di senso. Il termine senso non avrebbe alcun senso! Più plausibilmente, il significante senso non esisterebbe.

Così, per dirla con Armando Verdiglione, il senso è un effetto della parola. Non è mai un suo presupposto.

Esattamente come – parafrasando Andrea Torrente, illustre giurista del Novecento – il senso di una norma è il risultato, quindi l’effetto, della sua interpretazione, non il presupposto.

Ancora Greimas ci dice, ad esempio, che “un quadro, una poesia, non sono che pretesti, in quanto non hanno che quel senso – o quei sensi – che noi conferiamo loro”.

Quindi, nessun senso precostituito o predeterminato. Ma un senso che viene da noi stessi conferito, attribuito. Attribuzione che, chiaramente, è un’azione tutt’altro che volontaria e intenzionale. È qualcosa che avviene nostro malgrado e che, per Greimas, risente del “filtro culturale della nostra percezione del mondo”.

“Che cosa significa questa parola? Che cosa si intende con questo termine? […] l’uomo tenta di interrogare ingenuamente il senso, come se le parole volessero veramente dire qualcosa e come se il senso potesse essere afferrato drizzando l’orecchio. Le risposte date sono, però, solo risposte per procura, che non fanno altro che protrarre l’equivoco: infatti, sono semplicemente delle parafrasi, traduzioni più o meno inesatte di parole e enunciati in altre parole e in altri enunciati.

La significazione, perciò, non è altro che questa trasposizione d’un piano di linguaggio in un altro, di un linguaggio in un linguaggio diverso, mentre il senso è semplicemente questa possibilità di transcodifica.

Drammatizzando un po’ la cosa [ma neanche troppo! N.d.a.] si potrebbe dire, a questo punto, che il parlare metalinguistico dell’uomo è soltanto una serie di menzogne e che la comunicazione è soltanto una successione di malintesi” (A.J. Greimas, Del senso).

Così, il senso si produce parlando e scrivendo. Non è là. Non è prima. Non è uno.

Parlando, crediamo di capirci, ci illudiamo di comprenderci, riteniamo di trasmettere un senso – o, peggio, “il senso” –, ma quella che chiamiamo “comunicazione” è solo una traduzione incredibilmente approssimativa.

Secondo Armando Verdiglione, infatti, “le cose non significano. A esse non deve essere dato un senso, perché il senso è nella loro struttura” (Quale accusa?). E ancora, “il senso, il sapere e la verità sono effetti del percorso della parola, non sono cause” (Discorso isterico e ictus. Discorso ossessivo e infarto).

La parola, quindi, non è un mero strumento per spiegare l’esistenza di cose al di là e al di fuori di essa, ma è, anzi, un elemento costitutivo – potremmo dire – della realtà, come noi la conosciamo (o, meglio, come presumiamo di conoscerla). Per l’essere umano, semplicemente, non esiste un “a priori” della parola. Per quanto egli si possa sforzare, non troverà alcuna esperienza pre-linguistica. E il senso non incontra alcuna eccezione a questo. Esso, anzi, non può sorgere se non per effetto della parola e dell’articolazione linguistica. Ritenere di poterlo individuare, definire, circoscrivere è un’operazione di pura fantasia. È solo metalinguaggio.