La relazione, non c’è più cannibalismo

C’era una volta una giovane donna, Elisa, che si trovava ad affrontare prove durissime, prove di quelle del genere che prevedono l’esistenza di una eroina e di un’impresa epica.

Elisa era alla ricerca, e ormai si può dire disperata, di lavoro. Non erano tempi facili quelli. La ricerca avveniva sullo sfondo di una crisi mondiale trasversale a tutti i settori economici, che da anni infestava il mercato internazionale. La crisi aveva notevolmente alimentato l’indice di disoccupazione giovanile e costretto molte persone all’inoperatività. Ci si trovava quindi a competere con un numero elevato di concorrenti, e il pensiero che molti tra di essi fossero altamente qualificati e con esperienza non era affatto confortante.

Le possibilità di essere anche solo contattati per fissare un colloquio erano remote. Con un po’ di fortuna però dopo tanti, tanti, tanti, tanti, tentativi arrivava la sospirata telefonata e veniva quindi fissato il primo colloquio. A questo punto iniziava la vera impresa: prepararsi al primo colloquio. Ciò significava iniziare una maratona di training autogeno: l’eroina si concentrava nel tentativo di immaginare che tipo di domande le avrebbero posto, la cosa giusta da dire, il vestito, le scarpe, dov’era collocato con esattezza il luogo dell’incontro: questo in particolare la conduceva a fare numerosi sopralluoghi, correndo il rischio a causa della sua solerzia di essere scambiata per una molestatrice.

Quando poi arrivava il momento del colloquio l’agitazione era cresciuta in modo esponenziale tanto che Elisa era rimasta sveglia tutta la notte.

I minuti nella sala d’aspetto, facendo d’anticamera in attesa del colloquio, erano sempre critici: i pensieri si avvicendavano velocissimi nella mente giungendo ad offuscarla. Seduta su quella seggiola scomoda mentre aspettava di essere chiamata, Elisa parlava da sola. Si preparava facendo finta di avere difronte un interlocutore invisibile, proprio come aveva provato davanti allo specchio. Nel frattempo si configuravano nella mente le prospettive rispetto al lavoro che stava cercando di ottenere. Lei era l’ultima arrivata quindi dal momento dell’assunzione le toccava di attraversare una fase molto delicata e impegnativa: il purgatorio. Lo status di Nuova comportava che per un periodo indeterminato Elisa dovesse accettare qualsiasi incarico mostrandosi disponibile e flessibile, quasi come se a causa della sua inesperienza fosse costretta a pagare pegno. Erano pensieri che non aiutavano ad allietare l’attesa.

La segretaria la guardava sorridendo: quanti ne aveva visti parlare da soli seduti in quel corridoio, quasi si divertiva a coglierli di sorpresa quando si avvicinava per invitarli ad entrare nell’ufficio.

Nel momento in cui Elisa varcava la porta dell’ufficio i pensieri ormai si erano attorcigliati in un unico groviglio informe e nebuloso, ed infine quando si sedeva sulla “poltrona dell’impiccato” niente più operava. Elisa era convinta che in quegli istanti era indispensabile stabilire un legame, iniziare a costruire un progetto insieme, far intendere che c’era un unione di intenti. Concentrare il massimo nel più breve tempo possibile.

Niente di più sbagliato.

Perché è proprio la convinzione che si debba costruire un qualcosa che porta tutto allo sfacelo. La brevità del tempo che si pensa di avere a disposizione e l’esigenza di dover costruire qualcosa in quei brevi istanti è la causa principale delle ansie da prestazione. Pensare di trovare un qualcosa, il primo mattone da cui partire per creare un legame aggiunge ulteriore preoccupazione.

Alla base di questi fantasmi c’è la concezione della relazione come un qualcosa di concreto. Nel parlato si dice: ho rotto con qualcuno, ho interrotto una relazione, ho incrinato un rapporto, ho tagliato i rami secchi, ho tagliato il cordone ombelicale. Si fa riferimento sempre ad un oggetto corporeo che unisce due individui.

Pensare alla relazione e figurarsela come materia, come sostanza, trasforma la relazione in un rapporto.

La credenza nel rapporto conduce a convinzioni come quella di rompere o di non lasciare distanza perché la relazione è diventata un’oggetto che ha una superficie coprente, che separa. Ne deriva l’esigenza che non ci debbano essere segreti, partendo dall’errata convinzione che si possa dire tutto, oppure che ci si possa nascondere dietro la copertura della superficie del rapporto evitando di dire qualcosa. In questo modo si tralascia completamente l’inconscio e si nega quello che si potrebbe produrre lungo l’incontro, insieme agli effetti della reciproca interazione.

Se invece non ci si fossilizza sulla relazione come sostanza, non la si intende quindi come rapporto chiuso, non ci sono ansie perché non si deve costruire nulla o non c’è nulla da rompere. Siamo già in relazione poiché la relazione è alle spalle, esiste prima di noi.

Se pensiamo sia necessario dover cercare un punto di contatto da cui partire siamo paralizzati da una ricerca che non troverà mai soluzione.

Un incontro racchiude potenzialità infinite soltanto se si parte da un approccio di apertura, se non ci si sofferma sulla denominazione del primo contatto. Se invece si parte dal Due le ansie da prestazione e i fantasmi di padronanza si dissipano magicamente.

Il popolo giapponese in questo ci dà un insegnamento interessante: sostengono che a prescindere dall’occasione in cui si viene a creare una relazione sia indispensabile non sottovalutare le possibilità di un incontro (principio dell’ En, Keigo Okonogi, Il Mito di Ajasè e la famiglia giapponese, pag 117).

 

di Elisa Melzani