Le modalità contro la riuscita
MARCO MOSCATTI
ricercatore, ingegnere, imprenditore, membro dell’equipe cifrematica di Modena
LE MODALITÀ CONTRO LA RIUSCITA
Prima di esplorare quali siano i dispositivi della riuscita, vediamo le modalità più comuni con le quali ognuno si rende soggetto e soggiace alla crisi, assumendola sostanzialmente anziché accogliere ed elaborare le questioni che essa pone.
Una di queste modalità consiste nel farsi soggetti della mancanza, cioè credere realisticamente di essere mancanti. Se si è presi da questo fantasma, nel momento in cui occorre fare un investimento, si può pensare di non avere le coperture, sociali o finanziarie ritenute necessarie. Di questo abbiamo parlato nel corso della conferenza Come vivere di aria. Ma se c’è un investimento pulsionale, se s’instaura un’istanza di qualità, allora nessuna copertura è necessaria e, anzi, procedendo dall’apertura, come scrive Machiavelli: “Di cosa nasce cosa, e il tempo la governa”. È il tempo a governare le cose e non il soggetto. Chi si ritiene mancante opera una scelta di comodo, si giustifica in principio precludendosi il rischio di riuscita. Così c’è chi ritiene che per intraprendere un’attività occorra il capitale finanziario, mentre è proprio dall’impresa che il capitale deriva. Richiedere che il capitale ci sia già in partenza significa eludere la difficoltà d’incominciamento, la funzione di zero, la funzione di nome, il non dell’avere. Steve Jobs, così come altri giovani imprenditori della Silicon Valley, incominciando la sua attività nel garage di casa ha dato testimonianza di come nessuno possa farsi soggetto di una presunta mancanza originaria. Lo stesso Cristoforo Colombo girò l’Europa per nove anni prima di ottenere credito presso la Regina di Spagna. Si indebitò fino a dover vendere i libri per mantenere la famiglia, e per ottenere il finanziamento ricercò appoggio addirittura presso il Vescovo confessore della Regina. Leggetene la storia e vi sembrerà di leggere La Mandragola, la favola di Machiavelli in cui Callimaco ricerca l’intervento di Fra Timoteo per raggiungere Lucrezia.
Un’altra comune modalità di rinunciare in partenza alla riuscita si fonda sulla credenza nell’incapacità soggettiva. Quante sono le persone che si ritengono per natura incapaci o limitate, magari in ossequio a qualche principio di appartenenza? Se ne è parlato nel corso della conferenza Le donne e il mito della madre, evidenziando come la differenza sia sempre un effetto del fare e mai una differenza a priori che possa fondare capacità e incapacità. Nel fantasma di incapacità, ci sono invece donne e uomini alla ricerca del fantasmatico principe azzurro, salvatore e animale fantastico a cui subordinarsi fuggendo il rischio e delegando l’impresa. Tuttavia, chi crede che il principe sia azzurro per certo non ha mai letto il testo di Machiavelli. Chi invece crede che sia bianco, nero o grigio nulla ne ha inteso. Lo statuto di principe è insostanziale e impossibile risulta l’assegnazione del colore. La fortuna è impietosa nei confronti di coloro che rinunciano al fare attendendo un salvatore, e Machiavelli parlando delle vicende politiche italiane scrive nel Decennale primo: “Voi vi posavi qui col becco aperto per attender di Francia un che venisse a portarvi la manna nel deserto”. Pare la versione rinascimentale della nota favola in cui un topino tutto impantanato accoglie felicemente l’aiuto del gatto che si offre di pulirlo, e come sapete ne diventa la cena.
Ciò che occorre per la riuscita non è dunque la delega del cervello ma la constatazione che le cose in quanto tali non significano e che, contrariamente a quanto l’onorata società vorrebbe farci credere, nulla è sostanziale. Come esempio clinico riporto un aneddoto dal campo sportivo che bene può essere trasposto in altri ambiti della vita. Un amico, che potremmo chiamare John ma che chiameremo Jack, mi ha raccontato della sua esperienza nella pallavolo. Tre anni fa giocava in seconda divisione e, avendo vinto il campionato, occorreva che la sua squadra si apprestasse alla promozione in prima. Così, come sempre quando c’è un aumento, diversi ragazzi erano titubanti e timorosi, si consideravano soggetti all’incapacità e dunque tentavano di rispecchiare questa presunta incapacità anche negli altri. Mi raccontò Jack che alcuni addirittura assunsero il ruolo di inquisitori e avviarono la caccia alle streghe, chiedendo ironicamente a ogni compagno di squadra: “Tu pensi di essere un giocatore di prima divisione? Ma ti ricordi da dove vieni? Fino a due anni fa giocavi in terza”. Ma proprio questo è il punto: nessuno è. Questo indica la funzione di uno, la funzione di figlio, il non dell’essere. Impossibile pensarsi e pensare di essere, pena la rinuncia, lungo la credenza di essere mancanti. È fallimentare patteggiare con l’inquisizione, e fallimentare è assumerne le categorie rispondendo realisticamente. Il giudizio è del tempo e le cose procedono dall’apertura, facendosi secondo l’occorrenza. Così nel giro di due anni la squadra di Jack si classificò addirittura seconda nel campionato di prima divisione affacciandosi a quello di serie D. Tuttavia, poiché in assenza di analisi e di elaborazione la storia non è affatto maestra di vita, a Jack e agli altri che avvertivano un’ulteriore istanza di qualità e di aumento si rinfacciarono le stesse obiezioni: “Sai chi sei? Pensi di essere un giocatore di serie D?”. Ma ancora secondo l’occorrenza si fanno le cose, e ancora del tempo è il giudizio, tant’è che ora Jack non solo gioca in serie D, ma dopodomani la sua squadra disputerà i play off per la promozione dalla serie D alla C.
Vi leggo un passaggio dal libro In direzione della cifra di Sergio Dalla Val, pubblicato da Spirali, che presenteremo al teatro comunale di Modena il 24 maggio prossimo [2012]: “Di cosa si tratta nell’analisi, se non di dissipare ogni assunzione d’identità e ogni rappresentazione di sé o dell’Altro, di cessare di mimetizzarsi e di rispecchiarsi in ogni cosa?” e ancora, nel capitolo Dio e la scrittura: Nella nostra esperienza, constatavamo che rappresentarci qualcosa era un modo per negarla, riducendola alla nostra portata, confinandola nei limiti dei nostri pensieri. Così, per la riuscita occorrono i dispositivi, il ritmo e l’aritmetica di cui parlerà Anna Spadafora nel seguito della conferenza, ma affinché ciò sia possibile è innanzitutto necessario non rappresentarsi le cose.
Esploriamo dunque in cosa consistono il discorso algebrico e il discorso geometrico, che la cifrematica individua come le più comuni modalità di rappresentazione. Per farlo in modo chiaro vi propongo un’altra testimonianza dal campo sportivo. Lo stesso Jack mi ha riportato la dichiarazione fatta da un suo compagno di squadra durante la partita di campionato di qualche settimana fa. Dopo aver perso il primo set, la squadra di Jack si trovava in vantaggio di 10 punti a 5 nel secondo. Durante un time-out chiamato dall’allenatore avversario, uno dei giocatori di riserva della squadra di Jack dichiara: “Con il vantaggio che abbiamo, ormai questo set `e vinto, meglio pensare al prossimo”. Possibile che a quel giocatore sfuggisse che a pallavolo i set si vincono a 25 punti e non a 10? Ecco un esempio di adesione automatica al discorso algebrico, per il quale le differenze sono realistiche, sostanziali e il vantaggio di cinque punti viene mentalmente estrapolato fino alla presunta conclusione di 25 a 20. Ma se un pensiero del genere se lo può forse permettere chi si ritiene in panchina, cioè chi si situa fra gli osservatori, è invece rovinoso per chi si trova in campo. Nella battaglia importa il fare, il gioco palla su palla, e tale ritmo viene meno se ci si pone nella fine del tempo, pensando di aver già vinto o già perso. Infatti, rappresentare l’esito in positivo così come in negativo è negazione dell’istante, dell’istante attuale (e dire istante attuale, istante dell’atto, è già una ridondanza). È negazione della battaglia nella quale le cose si decidono e non sono mai decise a priori. Altra caratteristica del relativismo algebrico è poi la sempre possibile inversione del segno. Così, se la squadra di Jack avesse subito cinque punti ritrovandosi 10 pari, il discorso algebrico, anziché rimettersi in gioco, avrebbe continuato a significare la differenza, questa volta con il segno negativo, interpretando la perdita del vantaggio di cinque punti come segno inequivocabile del declino e ponendosi già in una prospettiva di sconfitta.
Diversa modalità è invece quella geometrica, che relativizza la forza e il valore credendo nelle proporzioni e nei rapporti sociali. Tale discorso, da un punteggio di 10 a 5, deduce automaticamente di essere il doppio più forte dell’avversario e dunque prevede il futuro ragionando per proporzioni e fantasticando che per ogni punto dell’avversario lui ne segnerà due e dunque la partita finirà di conseguenza. Quanti sono coloro che, anche nell’impresa, adottano queste modalità di pensiero? Consideriamo ad esempio un imprenditore che ha ottenuto un risultato negativo nel primo trimestre. Se si trova in un discorso geometrico, anziché interrogarsi lucidamente sugli interventi richiesti dall’occorrenza, tenderà a proiettare il risultato attuale sui trimestri successivi, fino a prevedere un’ipotetica chiusura di bilancio con una perdita disastrosa. Ecco allora la paura, e con essa la rinuncia, il ridimensionamento, i tagli indiscriminati e la rovina. Scrive infatti Machiavelli ne L’arte della guerra: “Molte volte, per la paura solamente, sanza altra esperienza di forze, le città si perdono”.
Chi è preso dalla fantasmatica di questi due discorsi fraintende le istanze di aumento. Così gli impegni si accumulano, sommandosi uno all’altro nell’ottica algebrica, fino a costituire una massa insopportabile. E le difficoltà, secondo il discorso geometrico, si moltiplicano, il tempo si spazializza e, una volta spazializzato, si satura togliendo aria alla vita.
Con infinite esigenze, come fare dunque ad attenersi al programma e a giungere alla riuscita in ciascun campo? Innanzitutto procedendo per integrazione, constatando come le cose, se si inscrivono nel progetto di vita, non sono mai in una quantità ordinaria e ordinale, ma sono tante, non tutte, non prime, non ultime e mai tali: fra tante cose, quante sono nella parola e quali giungono alla cifra, cioè si qualificano? Le cose che entrano in un processo di valorizzazione non si accumulano e non si fanno massa inerte, perché ciascuna dà il proprio apporto all’esperienza. Comunemente si ritiene che in vista di un impegno, ad esempio un esame universitario o una scadenza lavorativa, occorra concentrarsi su di esso rinunciando al resto. Eppure, sebbene le priorità siano imprescindibili, non si può certo escludere l’Altro come nel discorso paranoico o tagliare corto come nel discorso schizofrenico. Al contrario, occorre sempre procedere dall’apertura e senza il principio del terzo escluso. Perché mai il terzo dovrebbe essere escluso? Perché mai ridursi ad assumere le categorie aristoteliche? Come scegliere fra materie scientifiche e materie umanistiche? Fra corpo e mente? Fra carriera e famiglia? Fra cigno bianco e cigno nero? Fra Esmeralda e Fiordaliso? In assenza di un equivalente generale, è impossibile la scelta. Perché le cose non si equivalgono, non si confondono, non si paragonano secondo una gerarchia e ciascuna istanza esige un’attenzione particolare. Perché mai dovrebbe essere necessario fondarsi sul discorso della morte, cioè sul discorso della fine del tempo, dal dramma del lago dei cigni fino all’assunzione del martirio professionale? La funzione vuota, la funzione di Altro, comporta che il terzo non sia escluso e che la terza via si trovi procedendo per integrazione.
In virtù di quella forza costante che Freud chiama pulsione, risulta impossibile nella crisi rinunciare e rimandare alla prossima occasione, al prossimo tempo, alla prossima partita. Perché già questo è l’altro tempo. Vivendo, ricerchiamo, facciamo, intraprendiamo e giochiamo. Ma il desiderio è inconoscibile e il progetto di vita è inconscio, dunque non sappiamo mai a che gioco stiamo giocando. Così, seguendo la pulsione nelle pieghe della parola, la battaglia si rivela artificiale, pretesto teatrale, si situa sempre in un’altra scena, in un altrove. Ecco dunque che la vita altra è già in atto e non occorre attendere un’altra vita.
Questa la nostra scommessa. Nel rilancio di ciascuna giornata, constatiamo come il capitale del principe è intellettuale. E tramite il capitale intellettuale si può giungere dalla crisi alla riuscita, senza eludere la difficoltà, senza rimedi in pillole, perché, come scrive Machiavelli, “la via facile è la rovina”.
Il testo è stato presentato nel corso della conferenza “La crisi e i dispositivi della riuscita”, presso il Palazzo dei Musei di Modena il 14 maggio 2012.